Educazione personalizzata: basta nozioni, sì al piacere di imparare
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“Non dobbiamo lavorare su nozioni e conoscenze, ma sulla voglia di averle”. È una concezione che pare opposta a quella della scuola come la immaginiamo quella che propone Silvia Pagani, pedagogista e fondatrice di Artademia, che si definisce come non-scuola: ha dieci anni di esperienza, quasi un centinaio di alunni, 75 docenti e 400 ore passate all’aperto. Non scuola che però secondo la pedagogista porta risultato molto sopra la media. “I ragazzi studiano un decimo e rendono dieci volte di più”, spiega raccontando di un metodo che guarda al passato e punta al futuro e ha al centro ogni singolo ragazzo in una forma di educazione individuale che molti identificano come una delle vie per i prossimi decenni.
Che cosa significa individualizzazione?
Lo racconto spiegando il nostro metodo. Noi già facciamo gruppi classe per i piccoli, elementari e medie, e per i grandi, superiori e università, eterogenei per età, con un argomento che viene declinato a seconda del bambino che lo affronta. Per i grandi la proposta assomiglia di più a una proposta universitaria. Ogni sessione, delle 5 o 6 che ci sono in un anno, possono scegliere a quali corsi partecipare. Alcuni sono inseriti obbligatoriamente, competenze necessarie. Il resto lo scelgono loro fra più di 100 corsi all’anno.
I punti fondamentali?
Sono esperienza, passione e relazione. Le nuove generazioni sono molto più avanti di noi, sono molto più intelligenti di noi, molto più sensibili, molto più intuitivi e non riescono a stare dentro a una proposta scolastica tradizionale. Hanno bisogno di relazione, un rapporto individuale dove sentono che l’altro sa chi sono. Le prime due settimane di scuola sono lavoro solo su questo: facciamo cose insieme, ci dobbiamo voler bene, altrimenti l’educazione non funziona. Il secondo punto è la passione, il docente deve far venire voglia di imparare. Non ci sono compiti e all’una si finisce. Sono loro a chiederli dopo un paio d’anni. Da lì si vede che è nata una passione. All’inizio l’indicazione è di provare più corsi possibile, per sfruttare la loro curiosità. Tutte le lezioni sono esperienze. Si stimolano curiosità, emozione, intelligenze multiple.
Si arriva alle competenze che richiede la scuola tradizionale?
Si arriva a molto di più perché non sono “massacrati” da modalità che non gli corrispondono. Non deve contare la tempistica di un programma ministeriale. Per storia per esempio, fra i piccoli, è importante conoscere la linea del tempo e i fatti. Da questo metodo vengono le competenze alla fine del ciclo, ma anche una grande capacità di problem solving che manca nella scuola tradizionale e si vede subito quando i ragazzi entrano nel mondo del lavoro. Per i grandi l’obiettivo è arrivare a professioni vere e proprie che possano essere fatte senza la necessità di diploma tradizionale. Sono percorsi che si formano in modo personale. Tutto il lavoro è fatto con le intelligenze multiple.
Su che scala si può applicare?
Si può applicare a tutti. Negli anni abbiamo visto gruppi eterogenei per classi sociali, per provenienza, per cultura, dal punto di vista cognitivo. Si finisce all’una senza compiti perché il pomeriggio devono imparare altro. I primi ragazzi sono arrivati qui, in fuga dalla scuola tradizionale. Dopo, in molti hanno fatto con noi tutto il percorso. Questi ragazzi hanno potenzialità pazzesche che, quando si è un po’ intrappolati nel metodo tradizionale, fanno fatica a emergere.
Il metodo tradizionale si può integrare con questo?
Io e altri colleghi siamo partiti con laboratori esperienziali nelle scuole. Se l’obiettivo è portare una parte sperimentale nella scuola, per vedere come funziona e dare input per altro, può funzionare. Il metodo Artademia però stravolge il metodo tradizionale, la richiesta è molto diversa, non c’è compatibilità a lungo termine.
Perché una personalizzazione del percorso?
Lo richiedono le caratteristiche delle nuove generazioni. Per tanti ragazzi si riscontra un problema cognitivo o relazionale. Il problema vero è che noi adulti dobbiamo renderci conto che facciamo delle proposte inadeguate a loro. I ragazzi passano per quelli che hanno un problema. Non è così. È il mondo che ha un problema e non riconosce le qualità dei ragazzi. È impensabile pensare a una formazione che non sia personalizzata. Le nuove generazioni sono più ricche e variegate rispetto alle precedenti. Sono più dotati e noi cerchiamo di omologarli. Il mancato spazio per le caratteristiche personali li sta uccidendo.
Quali sono le caratteristiche fondamentali dell’educazione del futuro?
Prima di tutto la relazione. I bambini non sono più disposti ad avere relazioni finte. Sono gli uomini del vero. Non sopportano finte, bugie, ingiustizie. Devono sentirsi a casa. Deve tornare il piacere che è completamente scomparso nella scuola e che invece permette di investire più energie in ogni attività.
E per quanto riguarda i programmi.
Il programma deve essere “mio” non della scuola. Per ognuno gli obiettivi devono essere diversi. Se per il ragazzo è iperattivo l’obiettivo è tenerlo mezz’ora a seguire, per quello sempre con la testa nei libri l’obiettivo è sperimentare sempre cose nuove. Un’altra cosa che manca totalmente nella scuola è l’esperienza di vita. La vita porta tanti argomenti affascinanti che è riduttivo limitarsi a dieci materie. Avere più materie fa sentire i ragazzi più adeguati perché possono trovare qualcosa in cui riescono migliorando l’autostima. Fondamentale è anche insegnare ai ragazzi come si gestiscono le emozioni, come si funziona nella relazione, come possiamo gestire gli stati d’animo, quello che ci fa stare bene e male. È una scuola che guarda al futuro ma prende tanto dal passato da quell’istruzione che era fatta andando a bottega o camminando per il bosco.
La scuola attuale non funziona per nulla?
Non è che tutti quelli che vanno in una scuola tradizionale non riescano o manifestino una sintomatologia. Anche quelli che riescono hanno però uno sfruttamento delle loro potenzialità ridicolo perché raramente si divertono. La proposta della scuola è vecchia pensata per persone del dopoguerra che avevano una vita molto pratica. Invece adesso i ragazzi hanno una vita totalmente teorica, hanno bisogno di pratica. C’è un inutile spreco di pomeriggi passati sui libri per cose che non ricordano. Ricerche hanno dimostrato che le cose imparate vedendole o ascoltandole, dopo 15 giorni, ne abbiamo in memoria un 20%. Le cose che facciamo restano per il 90%. Non abbiamo, con il primo metodo, utilizzato che una minima parte delle loro potenzialità: invece serve fare pratica perché i ragazzi la teoria se la trovano da soli anche in rete.
Le nuove tecnologie entrano in questo progetto pedagogico?
Sì, c’è tutta una parte di corsi di grafica, robotica, social. L’obiettivo è tenere insieme passato e futuro.
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